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Ultimo Aggiornamento: 27/06/2006 18:02
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Nba, il trionfo dei ferrivecchi



Titolo a Miami. Il coach: «Li ho scelti perché erano degli sconfitti»

- Corriere della Sera -

Il 3 ottobre del 2000 Alonzo Mourning è un uomo morto: coi reni ridotti a colabrodo, gli dicono che col basket ha chiuso. Un cugino gli dona un rene per il trapianto. Febbraio 2005: Gary Payton, guardia con 19 anni di esperienza sulle spalle, soprannominato «il guanto» per le sue qualità difensive, è scaricato dagli Atlanta Hawks come un relitto. Il guanto è consunto e a 37 anni, con due finali giocate e perse, il ritiro pare la scelta più logica.
Aprile 2005: Antoine Walker, anni 30, è disoccupato. Lo chiamano il «bombarolo» perché se ne frega di tutto e di tutti: lui tira, possibilmente da tre punti. Una volta lo fece 11 volte di fila quando giocava con Boston. Punti segnati? Zero. Un’ala che non vola più, spesso inquartato da troppi hamburger.
Luglio 2005: Jason Chandler Williams, anni 31, è coinvolto nel più grande trasferimento nella storia della Nba: 13 giocatori cambiano squadra. Lui è aggiunto per ultimo al pacco della spesa, dono extra, tutto compreso. Il ragazzo ha un talento da strada senza precedenti, si fa chiamare «White Chocolate» per le sue movenze da nero, ma la Nba non è il parchetto dietro casa. Infatti è il leader delle palle perse: per molti coach è lui una causa persa.
I quattro profili cui sopra appartengono a quattro giocatori che l’altra notte, a Dallas, hanno contribuito in modo decisivo alla vittoria del titolo Nba, il primo della sua storia, dei Miami Heat. Che, come si capirà, non è un successo qualsiasi, perché è un successo ottenuto contro la logica di uno sport che produce una scienza esatta: i Dallas Mavericks, una squadra giovane, energetica, con trazione germanica (il talento tedesco Dirk Nowitzki), avrebbe dovuto distruggere i rivali, e quasi ci erano riusciti, visto che si erano portati sul 2-0 nella serie al meglio delle sette partite. Non solo: 2-0 e 11 punti di vantaggio con 6 minuti da giocare in gara tre. Nella storia della Nba soltanto due volte una squadra sotto 0-2 aveva vinto il titolo. Miami ha compiuto la terza impresa, vincendo in modo scioccante quattro partite di fila, grazie a una dozzina di quasi ferrivecchi più un campione formidabile, Dwyane Wade, un ventiquattrenne di Chicago che è la cosa più vicina a Michael Jordan che si sia vista da queste parti.
In questo panorama non poteva mancare la figura eroica e vagamente cinematografica del coach: dell’allenatore con un principio di vecchiaia nello sguardo che vinse 4 titoli quando era giovane e irresistibile (Los Angeles Lakers, Magic, Kareem eccetera), ma che da 18 anni vaga per la Nba come un rabdomante malinconico che ha perso la vena giusta: Pat Riley. Quando decise di tornare in panchina, dopo quasi due anni di vita da presidente, a Miami lo chiamarono egocentrico. Scrissero: si scava la fossa da solo. Quando solleva il trofeo dice: «Ho scelto questi uomini perché come me sanno che cosa vuol dire sentirsi sconfitti, abbandonati: perché come me posseggono un desiderio di rivalsa senza limiti. Quando ci danno per spacciati, vengono fuori le qualità umane che ti fanno emergere». Tra i suoi molti meriti c’è quello di aver convinto Shaquille O’Neal a crederci. Già, lo Shaquille scaricato dai Lakers due anni fa in quanto grasso e ormai in data di scadenza. Puntarono su Kobe Bryant, l’ex amico. E manco fecero i playoff. Shaq arrivò in Florida e disse: «Non sono venuto per andare in spiaggia, sono venuto per vincere». Uomo di parola. Dice: «È la migliore squadra in cui abbia giocato. Dwyane Wade è un giocatore formidabile e un uomo splendido (Kobe, hai sentito? ndr ). Umile, responsabile, pieno di talento. Ma vinciamo perché siamo sinceramente amici». Prima di ogni partita Shaquille, Pat, Dwyane e tutti gli altri scoperchiano una cesta enorme che tengono nello spogliatoio: l’hanno riempita di foto dei loro familiari, bigliettini di tifosi, frasi trascritte da libri «motivazionali» e articoli di giornali che li sbeffeggiano. Niente tattiche. Solo pochi minuti di raccoglimento attorno a quella sorta di tempio. Sono i campioni del mondo. Con tutto il rispetto per Dallas, è una buona cosa.

Riccardo Romani
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